Ad annunciarlo in occasione delle giornata mondiale dell’idrografia la Nippon Foundation of Japan e la General Bathymetric Chart of the Oceans (GEBCO) nell’ambito del progetto Seabed 2030, che punta a mappare la totalità dei fondali oceanici entro il 2030. Un ruolo chiave in questo verrà giocato dalle nuove tecnologie. Giovanni Indiveri, del nodo ISME dell’Università di Genova ci racconta cosa i moderni robot autonomi possono fare per ampliare la nostra conoscenza del Pianeta Mare.
Quando nel 2017 è stato lanciato il progetto Nippon Foundation-GEBCO Seabed 2030, solo il 6% del fondo oceanico globale era stato mappato.
Paradossalmente, siamo invece molto più avanzati nella conoscenza dello spazio. La NASA è riuscita a mappare Mercurio, il pianeta Cerere, quasi tutto Venere e persino Marte, che dista oltre 220 milioni di km da noi. Senza dimenticare, poi, le immagini satellitari della Luna, estremamente dettagliate.
Le mappe dei fondali oceanici che riusciamo a costruire sono mediamente ad una risoluzione molto bassa, al massimo cinque chilometri, il che ci consente di avere una conoscenza molto grossolana della morfologia delle terre sotto la colonna d’acqua oceanica. Se paragonate alla risoluzione a 20 metri delle mappe marziane, siamo chiaramente anni luce indietro.
Risoluzioni di mappe a confronto: da sinistra Marte, la parte inferiore dell’Oceano Atlantico settentrionale e l’Inghilterra meridionale. Tutte le mappe sono alla stessa scala. Nella mappa del fondo marino si possono distinguere le tracce di risoluzione più alta di una mappa sonar raccolta in mare. Le mappe provengono rispettivamente dalla NASA, dal NOAA e da OpenStreetMap. Il paragone e la didascalia dell’immagine sono tratti dalla tesi di dottorato “Autonomous Underwater Vehicle Photographic Surveys in Complex Terrain”, di Sophia Maria Schillai, Faculty of Engineering and Physical Sciences, University of Southampton, Ottobre 2018
Ma negli ultimi tre anni la percentuale del fondale mappata ad una risoluzione accettabile è cresciuto, e ora si attesta al 19%, con un avanzamento del 15% solo nell’ultimo anno. Nel 2019 sono stati inclusi nella griglia GEBCO circa 14,5 milioni di km quadrati di nuovi dati batimetrici (profondità), un’area equivalente a quasi il doppio di quella dell’Australia. A dichiararlo la stessa GEBCO, in un comunicato rilasciato durante la giornata mondiale dell’idrografia
“Oggi siamo al livello del 19%. Ciò significa che abbiamo ancora un altro 81% degli oceani ancora da mappare. Questa è un’area circa il doppio di Marte che dobbiamo catturare nel prossimo decennio” il direttore del progetto Jamie McMichael-Phillips ha dichiarato alla BBC News.
La mappa di GEBCO delle aree oceaniche ancora da mappare. Il nero rappresenta quelle aree in cui non abbiamo ancora ottenuto misurazioni dirette della forma del fondale oceanico. Il blu corrisponde alla profondità dell’acqua (più profondo è viola, meno profondo è blu più chiaro).
Un’idea di cosa ci possa essere nelle aree nere ce la danno i satelliti, ma con una risoluzione ampiamente insufficiente. L’ambizione del progetto è di arrivare ad una risoluzione di 100 metri per la totalità delle aree mappate.
Le mappe dei fondali marini sono uno strumento sempre più indispensabile, non solo per la navigazione, la posa di cavi e condutture sottomarine, ma soprattutto per la conservazione e la gestione del Pianeta Mare: intorno alle montagne sottomarine infatti tende a riunirsi la fauna selvatica marina. Capirne la collocazione ci permette quindi lo studio di diversi cluster di biodiversità, e anche la pianificazione delle attività di pesca nell’ottica della conservazione degli ecosistemi marini.
Inoltre, il fondale marino influenza il comportamento delle correnti oceaniche e la miscelazione verticale dell’acqua: informazioni sulla sua conformazione sono necessarie per migliorare i modelli che prevedono i futuri cambiamenti climatici, perché sono gli oceani che svolgono un ruolo cruciale nello spostamento del calore intorno al pianeta. Mappe più accurate dei fondali infine possono permettere di capire con maggiore precisione come e quanto il livello del mare si innalzerà in diverse parti del mondo, una conoscenza che diventa sempre più cruciale in questo momento, e ancora di più nei prossimi anni.
“Per arrivare alla conoscenza di un quinto dei fondali – commenta Giovanni Indiveri, del nodo ISME dell’Università di Genova – è stato indispensabile il passo di mettere insieme e integrare informazioni e dati già esistenti, e che giacevano sparpagliati nei database di diverse aziende, istituzioni e centri di ricerca. Negli anni, navi, grandi e piccole, provviste di apparecchiature di navigazione e sonar hanno raccolto dati sui fondali. Come riporta la BBC, una strategia molto efficace si è dimostrata quella messa in atto dal British Antarctic Survey (BAS), che consiste nell’integrare i dati raccolti su diverse rotte, e non solo su singolo sito di interesse. Un esempio è la recente mappa batimetrica dell’area del Passaggio di Drake (tra il Sud America e l’Antartide), costruita in gran parte sui dati acquisiti da diversi progetti di ricerca mentre si spostavano avanti e indietro nei luoghi dove stavano andando a compiere i loro studi”.
“Ma tutto questo non basta – prosegue – Come evidenzia anche GEBCO, le nuove tecnologie giocheranno un ruolo fondamentale nella mappatura del restante 81% dei fondali marini. Nel prossimo futuro, nuovi dati potranno essere acquisiti da robot autonomi provvisti di sensori acustici. La ragione per cui è più facile ottenere foto di oggetti nello spazio che in fondo al mare è infatti che l’acqua del mare tende a bloccare le onde elettromagnetiche dei radar, usate per comunicazione, la navigazione, la mappatura e il rilevamento sulla terra. Per riuscire a produrre immagini in alta risoluzione del fondo del mare, è necessario l’impiego di onde acustiche generate da sonar, e la risoluzione sarà tanto maggiore quanto più il veicolo subacqueo con il sensore acustico a bordo sarà in grado di avvicinarsi al fondale marino.
I veicoli devono avvicinarsi molto al loro soggetto, nell’ordine di grandezza di qualche decina di metri, e farlo con una comunicazione limitata alla superficie e senza mappe in anticipo dell’area in cui sta navigando. Un’operazione molto complessa, che richiede un elevato grado di autonomia del veicolo.
La profondità media dei fondali oceanici è di 4-5 Km, sono quindi necessari robot abbastanza grandi da poter raggiungere fondali posti a chilometri dalla superficie, raccogliere dati lavorando in gruppo, e quindi giungere ad un’analisi al contempo accurata ed estesa del fondale.”
Un esempio è la flotta di navi robotiche di Ocean Infinity, una società del Regno Unito e degli Stati Uniti che conduce indagini sui fondali marini, e che attualmente sta costruendo una flotta di navi robotiche sia di superficie sia in grado di andare in profondità.
Ma le applicazioni di interesse aziendale sono limitate ad attività che si svolgono a profondità non molto elevate. Come dichiara alla BBC il responsabile del progetto Seabed 2030, la mappatura dei fondali marini nelle aree più vicine alla costa, ad esempio per parchi eolici o di posa di cavi, risveglia attorno a sé moltissimo interesse, attività e investimenti da parte delle aziende. Ma quando si tratta di aree molto remote del pianeta, è necessario l’intervento coordinato di governi, industria, accademici e scienziati per una mappa oceanica ora assolutamente fondamentale ed essenziale per l’umanità.
