Il Tesoro in questione non sono pepite d’oro, ma formazioni rocciose composte da manganese e da elementi metallici che trovano impiego in svariati settori industriali, e che sulla Terra cominciano a scarseggiare. Si trovano nel mare profondo, e la loro ricerca somiglia molto a quella di un ago in un pagliaio. Il progetto Europeo ROBUST mira a mettere a punto un sistema di droni, manipolatori e sensori subacquei per trovare i noduli di manganese nei fondali marini, minimizzando l’impatto ambientale.
Il mare nasconde grandi ricchezze, soprattutto metalli che sulla Terra sono in via di esaurimento. Ma trovarli e soprattutto estrarli richiede tecnologie all’avanguardia, che consentano di reperirli nell’immensità delle acque e al contempo limitare i danni all’ambiente.
Proprio l’esplorazione dei fondali per la ricerca di metalli rari è l’obiettivo del progetto europeo ROBUST (http://eu-robust.eu/), che vede coinvolta ISME assieme ad aziende, università e Centri di Ricerca in tutta Europa.
Scopo del progetto è l’individuazione dei noduli di manganese, formazioni rocciose in cui il manganese si accompagna a metalli come ferro, rame, cadmio, molibdeno, cobalto, sodio, stronzio, zinco, bario, titanio, calcio e nichel: elementi fondamentali in innumerevoli settori (industriale, medico, tecnico-scientifico, militare). Le quantità di metalli contenuti nei noduli sono anche di molto superiori a quelle in terraferma, come ad esempio per il Tallio, presente in percentuali anche 6000 volte maggiori.
I noduli polimetallici si formano in fondali con determinate caratteristiche: piani, sabbiosi, e profondi (circa 6000 mt o più).
“una tecnologia innovativa per mappare ampie sezioni del fondale – spiega Enrico Simetti, del nodo ISME dell’Università di Genova – deve ridurre sia i costi sia l’impatto ambientale. Al momento infatti per le esplorazioni vengono impiegati veicoli subacquei operati da remoto, e diverse navi di appoggio. Noi puntiamo a un sistema in grado di indentificare l’area in cui si trovano i noduli nel modo più preciso possibile, in modo tale da limitare le azioni estrattive che seguiranno ad un’area circoscritta. Impieghiamo veicoli autonomi, in un numero ridotto, rendendo anche le operazioni di esplorazione il meno invasive possibile.”
Il sistema ROBUST si compone infatti di veicoli autonomi provvisti di un manipolatore e di una tecnologia laser, in grado di fare una “scansione” del fondale e ottenere informazioni precise sui tipi di metalli che custodisce.
I robot inizialmente acquisiscono immagini del fondale tramite onde acustiche, che vengono emesse da un sonar e rimbalzano sul fondale. Analizzando il segnale di rimbalzo è possibile comprendere le caratteristiche del fondale, pr esempio se è piatto e sabbioso, e quindi adatto ad ospitare noduli di manganese. I veicoli sono in grado di individuare automaticamente le aree dove, date le caratteristiche, è più probabile trovare metalli.
Su queste aree il veicolo decide un secondo sopralluogo, questa volta ad alcuni metri dal fondale, tramite uno scan visivo con telecamere.
Per questa operazione gli scienziati hanno predisposto un software di classificazione delle immagini che mette a confronto un grande database contenente foto di noduli di manganese con le immagini acquisite dalle telecamere, in modo da indirizzare i veicoli verso le parti più promettenti dell’area di fondale individuata.
A questo punto, l’operazione più complessa, che consiste nell’analisi della composizione del nodulo direttamente in situ.
Questo permette di capire quali metalli ci sono nelle pepite, e in quali composizioni, permettendo poi un’attività estrattiva mirata.
Per questa analisi il veicolo “atterra” sul fondale, guidato dalle telecamere, che continuano ad inquadrare i noduli sul fondale. Una volta atterrato, un manipolatore montato sul veicolo viene utilizzato per portare un sensore innovativo, denominato LIBS, molto vicino al nodulo (1-2 cm) per effettuarne la spettrografia.
“ Poter guidare il manipolatore così vicino al nodulo – prosegue Simetti – è un’operazione molto complessa. Riusciamo a compierla tramite un secondo laser montato sul veicolo, che proietta una linea retta sul fondale. Una telecamera inquadra le deformazioni della linea su un’area di circa 20×40 cm, avendo così un’immagine in negativo delle deformazioni del fondale, nodulo incluso. Questo permette di ottenere l’informazione su dove sia il nodulo e di guidare il sensore LIBS sopra di esso alla distanza necessaria per effettuare la spettroscopia. Fatta la misura sul singolo nodulo, si procede con gli altri noduli vicini.”
“Un sistema -precisa – che permette di trovare i metalli senza andare a scandagliare con mezzi invasivi grandi porzioni di fondale marino.”
L’ultimo passo è quello dell’estrazione. Ma è un passo che richiede una enorme cautela, perché negli ultimi anni si è destata l’attenzione nei confronti dei tesori racchiusi nei noduli polimetallici.
Già negli anni ‘70 le compagnie minerarie si erano interessate alle attività estrattive negli oceani. Nel 1982 l’esigenza di un quadro normativo internazionale diede vita alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, cui aderirono col tempo praticamente tutte le nazioni, con la grossa eccezione degli Stati Uniti. Gli accordi presi hanno portato alla creazione delle acque internazionali, oltre la linea della piattaforma continentale, su cui gli Stati nazionali non vantano più diritti minerari.
Le acque internazionali sono state dichiarate patrimonio comune dell’umanità, e il loro sfruttamento deve essere pacifico, nell’interesse di tutto il genere umano e nel rispetto dell’ambiente. La Convenzione ONU sul diritto del mare ha previsto un apposito organismo intergovernativo, l’Autorità Internazionale dei Fondali Marini (ISA, International Seabed Authority) per organizzare, regolare e controllare tutte le attività minerarie in acque internazionali. Tuttavia, l’ISA non ha ancora costruito un quadro normativo vincolante.
“Le acque profonde hanno una superficie che è circa il 50% di quella del pianeta – commenta Gianluca Antonelli, del nodo ISME dell’Università di Cassino e del Lazio Meridionale – e contengono moltissimi ecosistemi in gran parte ignoti e inesplorati, a elevata biodiversità. La Convenzione sul diritto del mare fornisce linee guida ma non vincoli normativi. Manca una concreta pianificazione sovranazionale per regolamentare e tutelare queste aree. In assenza di regole chiare e condivise, e dato l’enorme interesse che sta suscitando l’estrazione di metalli dai fondali marini, noi scienziati abbiamo la responsabilità di progettare tecnologie che abbiano il basso impatto ambientale e la tutela degli ecosistemi tra i requisiti essenziali.”.
E proprio la voce di chi fa ricerca sul mare in questi ultimi anni si sta facendo sentire. Nel 2015 su Science è uscito un appello a firma di 11 scienziati in cui si riassume la portata delle scelte che si stanno per compiere e le misure che vanno assolutamente adottate per preservare gli ecosistemi marini. Nel 2017 Science ha ospitato un secondo appello promosso da scienziati coordinati da Roberto Danovaro, ricercatore dell’università Politecnica delle Marche e presidente della Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli, in cui si chiede l’istituzione di una organizzazione internazionale per gli ambienti marini profondi, compresi tra i 200 metri e gli 11.000 metri, sotto l’egida dell’ONU, con funzioni giuridiche e scientifiche, e con principi normativi vincolanti per la conservazione e l’uso sostenibile delle risorse marine.
“Chi è impegnato nello studio delle tecnologie legate la mare – conclude Antonelli – deve anche occuparsi dei reali impatti delle tecniche di estrazione che potrebbero essere impiegate, e che al momento sono sconosciuti; la biodiversità coinvolta è elevata ed eventuali danni avrebbero tempi biologici di recupero molto lenti. Dobbiamo assolutamente evitare che ecosistemi interi vengano danneggiati”.
