Come si mappano i fondali, quelli costieri ma anche quelli più profondi. Ci sono tecniche molto specifiche, che sfruttano le onde sonore per ‘leggere’ le caratteristiche del fondale.
Questi sistemi sono in grado di individuare anche sostanze tossiche, rifiuti inquinanti e persino residui bellici. Queste sono alcune delle applicazioni che sta studiando il team di ricerca coordinato da Giovanni Indiveri, del nodo ISME dell’Università del Salento.
In acque le onde elettromagnetiche vengono assorbite, sia i segnali luminosi che radio. L’unico modo per esplorare i fondali è tramite le onde acustiche: sorgenti acustiche a varie potenze, a seconda della profondità del fondale, possono effettuare una “radiografia” del fondale.
Fino ad ora l’esplorazione geotecnica e geofisica dei fondali ha richiesto un sistema molto grande e complicato. Una nave provvista di una sorgente acustica genera un suono che penetra l’acqua fino al fondale, che lo “rimbalza”. Il segnale di ritorno è poi acquisito da gruppi di ricevitori (idrofoni) montati lungo lunghi cavi a loro volta trainati in superficie dalla nave. L’insieme degli streamer formano un’antenna acustica di geometria prestabilita e fissa, in grado di captare i segnali di ritorno e quindi, in base ad essi, stabilire le caratteristiche del fondale. Gli streamer sono estremamente lunghi, e possono arrivare anche a 10-15 chilometri di lunghezza, il che rende questo tipo di rilevazioni molto macchinose e difficoltose.
Nave con streamer, collocati 1-2 mt sotto la superficie
Al contempo però, una modalità di rilevazione delle caratteristiche dei fondali è essenziale per poter acquisire dati e informazioni su un “mondo” ancora parzialmente ignoto, non solo per la ricerca di risorse naturali, ma anche per monitoraggio ambientale e per applicazioni come l’individuazione di rifiuti tossici e armi scaricati in mare negli anni.
Il progetto Europeo WiMUST, coordinato da ISME, e conclusosi lo scorso anno, ha sviluppato sistemi di monitoraggio più avanzati, meno ingombranti e più flessibili, basati su piccoli robot subacquei cooperativi, in gradi di muoversi in squadra e di condividere informazioni, come un vero e proprio team. Nel sistema WiMUST, ogni streamer è trainato da un robot subacqueo piuttosto che da navi. I veicoli subacquei si muovono in formazione, cambiando configurazione grazie alle informazioni che condividono, come fanno gli sciami di insetti.
Il progetto ha infatti sviluppato un algoritmo di navigazione che consente ai robot di localizzarsi tramite un meccanismo di trasmissione acustica.
Grazie alla capacità di muoversi in branco in modo autonomo, i robot potranno in futuro navigare con gli streamer più vicini al fondale, garantendo di conseguenza, una migliore qualità del segnale, e quindi una maggiore accuratezza dei dati di rilevamento.
Il sistema wimust: ogni robot ha uno streamer autonomo in grado di rilevare il segnale di ritorno. I robot cambiano spontaneamente formazione in base alle informazioni che si scambiano, raggiungendo di volta in volta la configurazione ottimale per il rilevamento dei dati.
L’esperimento finale di WiMust
Un ulteriore traguardo raggiunto dal progetto è stato quello di sostituire la nave che lancia il segnale acustico con due catamarani autonomi, rendendo così il sistema di rilevamento dei fondali completamente automatizzato.
I veicoli autonomi subacquei del sistema wimust
Un robot per esplorare i fondali
Giovanni Indiveri intervistato da Federico Pedrocchi spiega il funzionamento del sistema
TG Leonardo intervista Andrea Caiti, del nodo ISME dell’Università di Pisa, sui robot subacquei per esplorare i fondali
La stessa tecnologia è stata utilizzata di recente dal nodo ISME dell’Università di Firenze per “mappare” le bolle di anidride carbonica presenti nell’acqua, in modo da studiarne gli effetti sull’acidificazione degli oceani
